ytali. - Le Venezie vissute (e perdute? “ma anca no…”)

2023-02-05 17:26:35 By : Mr. Andy Luo

Mi piace mettere insieme due libri,  L’osteria della memoria (Mazzanti libri – ML meta liber) di Tullio Cardona e Venis andergraun (I Antichi editori Venezia) di Andrea Merola.  Più che per recensirli, per riprendere i loro ragionamenti e commentarli. Conosco gli autori e li ho avuti a fianco un po’ per tutta la vita, pur ognuno con le sue scelte e i suoi itinerari. Perché a Venezia chi va, chi torna, chi resta; non si perde mai di vista… E se in questi ultimi anni li incrocio come giornalista e come fotografo, il primo ricordo, quello che resta, va agli anni del liceo, che precedono le diverse carriere e itinerari di vita, perché richiama la comunanza dell’essere stati giovani insieme. 

E allora restano prima di tutto il mio portiere della squadra di calcio del liceo (di cui ero roccioso terzino destro) e uno dei giovani del manifesto cui, al momento della maturità, lasciavamo in eredità la gestione del movimento (in buone mani, ma lo si è visto dopo).

Perché metterli insieme? Perché parlano tutti e due di una Venezia perduta, interrogandosi (con molta disillusione) sulla sua “possibilità di futuro”. Non per recuperare un passato ormai seppellito, ma per ritrovarne la dignità e la capacità di essere città.

L’osteria della memoria si presenta col sottotitolo “dodici racconti di una Venezia perduta”.  

Si tratta di un metalibro. Il che vuol dire che l’editore, attraverso un’app gratuita, offre la possibilità di fruire di ulteriori contenuti, per rendere più articolata l’esperienza di lettura: tra questi, la possibilità di approcciarlo come audiolibro, letto e registrato dall’autore, di vedere immagini, e altro. 

L’autore ci offre una chiave importante di lettura dichiarando di averli scritti “nell’arco di molti anni”, mettendo mano a una Venezia “appena sfiorita che stava appassendo, svuotata di linfa come un tronco cavo ma dalla corteccia ancora apparentemente robusta”. Lo fa (sono ancora parole sue) per “rappresentare testimonianza, ai giovani per sapere, agli anziani per rammentare”.

La narrazione si svolge tutta nell’osteria di Bepi e Maria.  

I personaggi principali sono sei amici, frequentatori abituali dell’osteria e gran giocatori di carte: Fermo, Maneghète, Rospo, Formagìn, Vose, Balbo.  

Sono loro la voce che dipana la narrazione in dodici racconti – legati ai dodici mesi dell’anno.

A gennaio “El nono” – il vecchio solitario, presenza prima amata e poi rimpianta dai giocatori di carte; a febbraio “John”, che porta un soffio di gioventù e ne ha ritorno materiale ma anche morale; a marzo “L’incendio”, dove un ritorno di fiamma provocato dall’olio sul fondo di una teglia provoca un finimondo nel locale; ad aprile “La sfida” con gli effetti (tragi)comici di una gara a mangiare un numero spropositato di polpette; a maggio “El Conte Pescaor” dove si parla si “cassa peota” e capiamo cos’è l’omonimo locale veneziano; a giugno “L’ostessa”, giovane che introduce – per lo spazio di una mattina – modi gentili e professionali; che mettono in crisi la rustichezza degli avventori abituali;  a luglio “L’amico di montagna”, che porta funghi e trote e viene fatto ubriacare; ad agosto “L’ultima spiaggia”, in cui la chiusura dell’osteria spinge i protagonisti ad un angosciato dialogo sulla morte; a settembre “A bon viazo”, dove ci si gioca a carte un viaggio in Slavonia; a ottobre “ Prigionieri”, dove si resta intrappolati in osteria e si crea il “bagolo di carcerati”;  a novembre “Acqua alta”, un’acqua alta etilica in cui tra un’ombra e l’altra si discute dei ricordi dell’Aqua granda (del 4 novembre 1966) ; a dicembre “Il Regalo”, dove si rimedia ad una dimenticanza con un atto di amicizia, che ci fa capire come il gruppo sia unito e solidale. 

Nell’epilogo la magia in cui i racconti ci avevano fatto sentire dentro a questa calda e realistica osteria svanisce, perché veniamo a sapere che oggi non esiste più, travolta da diverse, successive trasformazioni speculative fino a diventare il magazzino di un ristorante.  

Lasciando deluso per primo l’autore che di quella realtà ha ricordi dei personaggi “così indelebili che può ancora rivederli”. 

Sei uomini che parlano tra loro in un veneziano ispirato – per scelta autoriale – ad un realismo linguistico più che ad un preciso codice dialettale. 

Di modo che credo che, con un po’ di fatica e l’aiuto di un po’di fantasia, possano essere compresi anche da lettori non veneziani   

Nella memoria artistica di Tullio Cardona l’osteria è un luogo dell’anima, il luogo di relazione per eccellenza, dove s’incontrano e s’intrecciano le personalità di tipi umani diversi e di diversa estrazione, che hanno in comune il fatto di essere tutti maschi (salvo qualche comparsata di Maria e della nipote, nel ruolo di ostesse – nel modo antico, di poche decine di anni fa, le donne nei locali pubblici erano un’eccezione). 

Ed è depositaria – l’osteria –  di tradizioni e valori. 

Il libro raccoglie racconti scritti in momenti diversi e in un arco di tempo assai lungo, che oggi l’autore ha sentito fosse tempo di rimettere insieme e rivedere, dando loro un respiro unitario. 

La descrizione di un mondo, che non è chiaro se ci sia sempre di meno e addirittura non ci sia più.

Le vecchie osterie (ce lo ricordano le “due parole confidenziali dell’autore”) non esistono più.  “Erano luoghi dell’anima, più che del vino.  Banconi, tavolacci e sedie dove il professore discuteva con il muratore, il medico con il ciabattino. Le classi sociali venivano superate dall’appartenenza, dall’essere veneziani. Là si parlava, si beveva, si giocava alle carte: un convivium, un salotto di umanità, di pensieri, di solidarietà”.

Poi c’è stato il cambiamento (introdotto e bruscamente sintetizzato dall’epilogo).

“Ora i tavoli servono per dar da mangiare ai turisti e offrire spazi agli studenti. … i biliardi per le boccette sono stati spazzati via … per dar luogo ad altri tavoli e altri pasti. (e qualcuna) si è trasformata in pizzeria, uguale a tutte le pizzerie del mondo…. Di veneziano, il nulla.” 

Forse però di osterie qualcuna ce n’è ancora. Vanno protette, coltivate, salvaguardate. 

Penso – per stare dalle mie parti – a quella di Campo della lana, dove ancora si trovano i panini fatti all’antica, i “mesi vovi” e la frittata, i peperoni sott’olio con o senza, acciughette e le ombre continuano a prevalere sugli spritz.  Dove tavoli e sedie sono di legno, quelli dentro e anche quello fuori, unico plateatico, che non disturba la circolazione … 

Oppure si può pensare a qualche caso di “nuova osteria” che perda cioè qualcosa ma qualcos’altro mantenga, che si adegui ai tempi senza perdere almeno una parte dello spirito originario.   

Che sia cioè ancora palcoscenico per una venezianità, ma adeguata ai “nuovi veneziani” – in particolare a giovani e gli studenti – e piaccia anche ai vecchi.   Sono magari poche (perché è prevalente la trasformazione omologante in bar o ristoranti seriali e un po’ uguali ovunque).  E perciò anch’esse da salvaguardare, in questo caso forse anche sviluppare.

Vediamo un esempio, sempre dalle mie parti. Penso al “bacareto da Lele”, in campo dei Tolentini vicino a Piazzale Roma. 

Aperto dalle 6 di mattina alle 8 di sera . 

Non ci sono interni, tavolacci, spazi propri. Ma c’è una grande capacità di offrire poche semplici cose e i prezzi sono popolari (per Venezia un’assoluta eccezione 2,60€ ombra e un mini tagliere con due fette salame due pezzi di formaggio, quattro o cinque grissinetti); bicchieri di vetro se si sta fuori, vicino al locale,  di plastica solo se ci si allontana. 

Ci si ferma, non ci si siede: il plateatico è il campo, il parapetto del canale, gli scalini della chiesa e della riva.   

Sempre affollato, ma la coda per ordinare vale la calma allegra e disordinata che si vive poi.   

Una dimostrazione che con pochi investimenti e molta fantasia, con il lavoro sodo e la capacità di puntare su una massa che ritorna più che sull’avventore (turista o meno) da spennare, spazio ce n’è.

Anche laddove non ci siano le condizioni per creare quel “convivio” come nella vecchia osteria.

Là c’erano gli uomini, spesso anziani, le carte, l’andamento lento, i cicchetti e il vino. 

Qui ci sono i giovani, maschi e femmine, si parla e si va (senza fermarsi, né per giocare e carte né per portare avanti discussioni interminabili).  

Vino e cicchetti sono comunque il dato fondante comune e persistente .

La relazione esiste, ma è una relazione dell’oggi – più chiacchiera che convivio.

In conclusione, fatemi dire che tra la sosta in osteria e quella nel bar moderno c’è un po’la differenza che c’è tra una lettera e un messaggio whatsapp.   

Tutte e due comunicano ma lo scambio ha profondità ben diverse. 

Ed eccoci al secondo libro. Andrea Merola è capace di abbinare all’arte dell’immagine anche quella della parola scritta. Lo dice Roberto Bianchin nell’introduzione e lo sanno i lettori di ytali, che hanno imparato a conoscerlo per i suoi contributi alla rivista.  E lui lo dimostra al meglio in questo suo libro fotografico, che ha voluto chiamare Venis andergraun  (edito da i Antichi Editori), una ironica venezianizzazione dell’inglese Underground (e il riferimento a Emil Kusturica, con la potente fusione di alti e bassi nel suo film del 1995 è esplicitamente dichiarato). 

Detto per inciso: peccato che il libro si possa acquistare solo online, su Amazon e principali piattaforme librarie (mi raccomando specificare Andrea Merola, se non volete essere sommersi dall’opera omnia di Mario Merola). Le librerie – veneziane e non – sono “piene” di opere su Venezia (molte volte non proprio immortali) e questo affresco della vita della città degli anni Ottanta del secolo scorso ci sarebbe stato proprio bene.

Perché Andrea ha pescato nel suo vasto archivio fotografico (magari durante la digitalizzazione degli scatti, che una volta si conservavano in negativo) per tirar fuori un libro sulla città – nelle sue parti di acqua e di terra, dalla Venezia storica a Marghera, al Lido. 

Una storia per immagini uno “sguardo da cronista sul mondo” con “l’occhio lucido e penetrante del cronista di razza” (traggo sempre dall’introduzione), ma anche ben raccontata con l’ironia e il distacco di chi fa cronaca fornendo i materiali per fare storia (e non solo delle e per immagini). 

Di un periodo ben delimitato: gli anni Ottanta. Scorrendo l’indice, capite il sentiero lungo il quale si dipana questo “racconto illustrato”. 

Si parte da Forse questo è il problema, con quegli anni (pur rimpianti perché quelli della gioventù) che non furono affatto un’età dorata. Il “vivi ora e chissenefrega” avrebbe presentato il suo conto con la marea dell’overtourism che è venuta dopo. Tanto che si inizia con una citazione: “el pezo no xe ma morti”;  per dire che anche una brutta situazione può sempre peggiorare.  

Questa parte si conclude con i veneziani che (quando i turisti se ne vanno) tornano in superficie come un fiume carsico, per riprendersi i loro spazi fisici. 

Ma il problema sta qua: nell’isterico dinamismo moderno che “non sa più cosa farsene di una città … fragile, ma superba nella sua unicità”.

Ed ecco che ci viene proposta una sorta di galleria, una specie di esposizione di quadri per descrivere la Venezia (d’acqua e di terra) di quel decennio. 

Con le cornici fatte dalla narrazione che introduce e contestualizza le tante, tante foto che quelle cornici riempiono e animano.  

Foto (spesso di qualità) per le quali l’elemento unificante sta nella vita e nella umanità che traspare da pressoché ognuna di esse. 

E nella prosa calma e garbata dell’autore, che ripercorre quegli anni come un “memoir” della sua giovinezza (umana e professionale). 

Vediamo allora cosa troviamo nel libro, seguendo i suoi capitoli, come fossero le sale di una galleria che mette in mostra le foto.

La prima sala è dedicata a “El Carneval” di una volta.

Si veniva da carnevali da bambino (con le festine, le mascherine, i vestiti da maschera da mettere sopra il cappottino), per passare, da ragazzo, per il “mitico” martedì grasso del carnevale di Burano di fine anni settanta (“un misto tra Viareggio e sagra del pesce”, con i suoi carri e i fritti offerti dagli abitanti).  Ed essere sbarcato nel 1980 al “Carnevale di Scaparro”, legato alla Biennale teatro ed entrato nella storia per le sue fantasie e la grande vera partecipazione a spettacoli e performances, in teatro e per strada (con i quadri intitolati “Arrivano i diavoli”, “Le belle mascherine”, “teatro ad oltranza”, “I antichi”). 

Così bello che viene data per implicita la constatazione che da allora divertimento e partecipazione dal basso hanno sempre meno frequentato i Carnevali successivi, sempre più istituzionali e ingessati – sempre più gente e sempre mono libertà e divertimento …

La seconda sala è dedicata al tema “Foresti e nostrani“ (per i non veneziani “forestieri e locali”). 

C’è una introduzione del tema del turismo. 

Turismo che è sempre stato presente in città, ma “è nel decennio degli Ottanta del novecento che l’industria turistica va gonfiandosi fino ad esplodere in un mostruoso overtourism che soffoca ogni altro vitalismo economico”. 

Perché negli stessi anni abbiamo la crisi dell’occupazione industriale: il polo chimico in crisi irreversibile, le esternalizzazioni di occupazione alla Fincantieri  a Porto Marghera, la chiusura della Junghans e l’affievolirsi della cantieristica minore alla Giudecca. 

“Visitatori improvvisati ” parla del turismo povero “giornaliero” regionale e nazionale (capace di auto organizzarsi con viveri  e bevande al seguito) e delle sue disavventure per riuscire a vedere Venezia nella poche ore di visita.  Magari tra l’arrivo da punta Sabbioni e la ripartenza della motonave, restando quindi per forza nell’area marciana.

“La calata degli Ungari” da conto degli arrivi dei turisti dall’est dopo la caduta del muro di Berlino (andiamo appena un po’ oltre gli ottanta), con i loro folli “andata e ritorno” in giornata (o dormendo in pullman) per “vedere Venezia”.

I “Saccopelisti” stanno tra fine anni Settanta e primi Ottanta, pratica giovanile, proletaria, di un turismo “autostoppista” che bivaccava (soprattutto in stazione), spendendo poco (o niente) e perciò suscitando tra i veneziani più antipatie (i commercianti) che simpatie (i pochi giovani come loro).G 

“Varda che scoop” è (per fortuna) uno scherzo tardivo del Carnevale veneziano …

In “Deliziosi siparietti” si vedono scene buffe legate al turismo fino all’arrivo “premonitore” della pima nave da crociera (nei primi anni novanta), quelle che poi saranno uno dei segnali del cambio di passo onnivoro del turismo. 

Ed entriamo nella sala del “Sociale – sfratti”, che fa vedere la resistenza che ci fu agli sfratti causati dall’ondata di vendite e con conseguenti tentativi di rimettere le abitazioni su un mercato più ricco (allora tipicamente seconde case per non residenti). 

Se passiamo alla sala “Sociale – servizi” facciamo un viaggio attraverso i diversi tipi di servizi che le giunte (rosse) negli anni tra ’80 e ’90 offrirono alla città.

Dai “centri estivi” agli Alberoni al tempo pieno e alle mense nelle scuole elementari, all’assistenza domiciliare ad anziani e disabili, alla cultura (con la scuola del merletto a Burano).

Dai miniappartamenti al Lido dove andarono i fuori usciti dall’ospedale psichiatrico dell’isola di San Clemente, chiuso dalla legge Basaglia, agli orti autogestiti dell’AUSER nell’isola dei Laghi, una storia con un bellissimo inizio e una fine più modesta ….

La sala “Sindacati e partiti”: quando internet non c’era, si andava in piazza per farsi sentire. 

E si andava per tenere lontano l’incubo nucleare, quello della guerra (fredda, allora). 

Per far valere le ragioni degli operai travolti dalle crisi industriali di porto Marghera, ma anche dei cantieri alla Giudecca o delle fornaci a Murano.

O delle donne, o dell’ambiente. 

O dei partiti; nel libro si vedono le immagini di Enrico Berlinguer sofferente al termine del suo ultimo comizio, a Padova il 7 giugno 1984 e poi del corteo funebre verso l’aeroporto di Venezia, dopo la sua morte (l’autore era allora fotocronista per “l’Unità”).

Eccoci ora alla sala de “I modi del divertimento”, dove veniamo portati nel mondo di allora, dei veneziani giovani negli anni Ottanta: dagli abbigliamenti di rottura con quelli degli adulti, al liston a San Marco, ai giri di ombre e cicheti, al Lido di murazzi, Zona A e motonave, alle serate al Paradiso Perduto e al Cherubino.   

L’ultima sala -“Sono stati famosi” è dedicata ad una serie di personaggi che lo sono stati (come dice l’aggiunta) “almeno per i veneziani”, con profili e foto di Dante Sinibaldi, Bruno Tosi, Aldo Zari, Amedeo Renzini, Marcello Pirro, Rico delle Scimmie.

Ho cercato non di “recensire”, ma di presentare due libri, che raccontano un periodo della storia di Venezia: quello che vede il disgregarsi di un quadro sociale e soprattutto economico plurale per arrivare alla monocultura dell’overtourism.

Mi sono piaciuti, perché sono due testimonianze storiche importanti.   

Ma anche perché sono due affreschi, con pennellate di parole e di immagini. 

I quadretti godibili nella loro ironica e alle volte amara leggerezza, da “racconto di osteria” (luogo di incontro, talvolta di scontro, sicuramente di umanità e confronto) di Tullio Cardona.  

Le fotografie accompagnate da piccoli saggi che introducono i capitoli del racconto autobiografico del suo affacciarsi alla professione di Andrea Merola.

In entrambi si respira una forte aria di disillusione, quella di veneziani che la loro città l’hanno vissuta e la vivono.

Sono due libri la cui lettura / visione può offrire qualcosa a chiunque questa città la vive (da abitante residente o da “foresto amico”) 

I due autori hanno un’età simile e hanno vissuto le opportunità– per dirla con Cardona –che i “nati della seconda metà degli anni ’50 (del secolo scorso ndr) oltre alle vicende di un mondo sempre più scalpitante, hanno potuto gustare porzioni della Venezia secolare, non solo per i muri che traspirano storia, ma per le tradizioni, la filosofia, la specialissima cultura ed il vivere quotidiano di chi li ha costruiti.”. 

Che li ha però esposti– come ricorda Merola – al sopraggiungere nell’ultimo periodo di due inattese calamità:  la pandemia e la guerra a due ore di volo da Venezia. 

Ed è questo aver vissuto Venezia e la sua involuzione, con il quadro aggravato dalle calamità recenti, che li porta ad interrogarsi, a dubitare della possibilità stessa di futuro per la città che amano e di cui ci hanno restituito gli anni dell’ultima trasformazione …

Sono, siamo uno zoccolo duro, un gruppo di resilienti – resistenti, gli ultimi giapponesi nella giungla?  Forse no. 

Roberto Bianchin conclude la sua introduzione ad “ander graun” con “nessun posto è mai morto finché ci vive ancora qualcuno”.   

Ecco. Sono i nostri comportamenti (dei veneziani e dei lettori foresti di ytali , amici della città) che possono dar senso a questo assunto.  

E forse almeno un po’ di speranza ai due disillusi autori di queste due opere su Venezia.   

Intanto, procuratevele e buona lettura …

Immagine di copertina: Primavera 1993, Isola dei Laghi, Torcello [da Andrea Merola, Venis andergraun]

Mario Santi, rifiutologo, consulente per la gestione e in particolare la prevenzione dei rifiuti, l'implementazione e gestione della tariffa puntuale. Ambientalista di vecchia data e attivo a Venezia con l'associazione Poveglia per tutti.

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Testata giornalistica registrata presso il Tribunale di Venezia n. 4/2015 il 21 settembre 2015. ISSN 2611-8548

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