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2023-02-05 17:26:23 By : Ms. Ruby Liu

La figura dell’architetto Giorgio Romoli non è stata spesso sufficientemente pubblicizzata e approfondita, soprattutto in seno alla riscoperta del costruito del ‘900. L’opera del progettista è legata alla realizzazione di una serie di edifici a carattere residenziale nella città di Roma. Ho avuto il privilegio e la fortuna di conoscere l’architetto Giorgio Romoli, oggi residente in Perù, donandomi uno scritto di sue memorie in merito al lavoro fatto

Lo studio TAUarch venne fondato subito dopo gli studi universitari: “Laureato a febbraio del 1965, insieme ad altri quattro, Mario Ludovico, Fiora Lulli, Maria Salvaggio, Piergiorgio Stefani, fondammo lo studio”. Un importante retroterra venne già dal periodo della formazione universitaria: “Negli anni della nostra frequenza da studenti nella Facoltà di Architettura di Valle Giulia, che vanno dal 1959 al 1965, i corsi di composizione e progettazione furono caratterizzati da due livelli d’insegnamento: quello dei titolari dei corsi, vicinissimi alla pensione, e quello degli assistenti, quasi tutti laureati dopo la Seconda Guerra Mondiale. I primi in realtà si vedevano poco, presentavano con una introduzione il tema del corso e poi ogni tanto facevano qualche verifica nei vari seminari diretti dagli assistenti. Poco o niente veniva detto sul Movimento Moderno, l’Architettura organica, il neorealismo, che nel cinema aveva raggiunto tanti risultati eccellenti. Le uniche cose che si chiedevano erano legate all’applicazione corretta del ‘Manuale dell’Architetto’. L’altro livello era quello degli assistenti, che di fatto proponevano un corso nel corso, dove spesso si parlava anche della filosofia dell’architettura e dove molti condividevano le teorie del Movimento Moderno. Ci si laureava secondo il loro insegnamento.”

Il primo progetto in cui lo studio si cimenta è la progettazione di una serie di villini nel quartiere Gianicolense, a via Sogliano. Il prof. Romoli così ha raccontato la genesi del lavoro: “Grazie a Piergiorgio Stefani, che aveva fratelli costruttori, ci capitò nei primi mesi del 1966 di progettare sei villini in sei lotti adiacenti di terreno a via Sogliano 23, abbastanza vicino al Buon Pastore di Armando Brasini a via Bravetta”. A 27 anni ci trovammo così ad affrontare un complesso architettonico che avrebbe fatto tremare i polsi a gente anche molto più matura. Gli unici ad avere un po’ di esperienza eravamo Piergiorgio, (moltissima di cantiere ed altrettanta nei rapporti con il comune per l’approvazione dei progetti) ed io, che avevo lavorato per circa otto mesi nello studio dell’architetto Luigi Pellegrin (conoscevo molte delle sue costruzioni) e qualche apparizione sporadica in altri studi per disegno di prospettive. Il resto era dovuto alla esperienza fatta in facoltà a Valle Giulia e alle lunghe discussioni fatte nei nostri studi precedenti e nelle pizzerie con tanti amici.

Il lavoro, in principio, non era impostato alla progettazione degli immobili. Come spesso accadeva nell’ambito della speculazione edilizia, i “tipi” edilizi erano dati, impostati spessi su schemi collaudati e semplici da eseguire a livello di cantiere. Nessun imprenditore era disposto a “buttarsi” su schemi nuovi e strade non battute precedentemente. “Quando ci fecero l’offerta, in realtà si trattava solo della direzione dei lavori, c’era già un progetto da ripetere per sei volte, dovevamo seguire l’esecuzione dei sei villini. Ci fu del bello e del buono per poter cambiare le cose, ma alla fine ci riuscimmo e va dato atto al costruttore Giovanni Stefani di averci ascoltato.

Il lavoro, iniziato, aveva già dei punti fermi ben definiti “I primi villini di via Sogliano erano già allo scavo delle fondazioni e si stavano preparando i ferri dei plinti, per cui i pilastri non si potevano cambiare. Rivedemmo la distribuzione interna senza toccare i pilastri e puntammo sull’esterno. Volendo dare continuità e unità al progetto, pur lasciandoli alle distanze dettate dal Regolamento Edilizio, abbiamo progettato gli edifici circondati totalmente da parapetti bianchi prefabbricati, alti circa 1,40, in parte sporgevano nel piano sottostante; un unico elemento per tutti ed erano sagomati in maniera che fossero più ampi davanti ai soggiorni e alla cucina. Comunque, erano tali che un bimbo potesse giocarci anche con il triciclo o con una piccola bicicletta, con o senza ruotine. I villini erano accostati in modo che la strada interna ne definisse le forme. In pianta queste ‘vasche’ formate da un solaio con i parapetti, che contenevano due appartamenti a piano, avevano contemporaneamente forme derivanti l’una dall’altra: se in uno c’era una convessità, quello accanto aveva una concavità, quasi a dare l’idea di essere stato staccato dal primo con un taglio, si potevano considerare in continuità fra di loro e con la strada sottostante. La composizione degli edifici perdeva di colpo lo studio dei prospetti con i vari rapporti pieni-vuoti e si riduceva solo alla forma dei parapetti e ai rapporti fra i vari edifici”. Grande importanza aveva la configurazione urbanistica che il nuovo complesso avrebbe creato, “Doveva diventare un agglomerato cittadino con parti integrate fra loro e non un elenco di villini del tipo a, b, c, (…) I villini dovevano far parte di un insieme, caratterizzato dalla qualità delle cose presenti e dal perché sono riuniti in un insieme.”

L’immagine architettonica che il nuovo complesso avrebbe avuto era reduce di echi espressionisti, il cui interessamento era presente sin dai primi anni della professione: “Durante quel periodo, insieme ad un gruppo di dieci persone, facevo parte dello studio ‘Tempio’ – così chiamato perché vicinissimo alla Sinagoga di Roma – e nei nostri dibattiti interni, oltre ai vari argomenti sul movimento Moderno, spesso affioravano anche le teorie dell’architettura organica. Ci interessavamo comunque di molti argomenti che non venivano affrontati dovutamente nella facoltà d’Architettura di Roma.”

Ad ogni modo l’immagine dei volumi curvi dei balconi dei villini era, per certi versi inedito, anche se aveva un precedente illustre nella palazzina “San Maurizio” di Luigi Moretti, va detto che, in questo caso, la genesi costruttiva degli stessi era assai diversa.

“La palazzina di Luigi Moretti, da noi molto apprezzato, in realtà è un classico edificio con balconi, numerosi ma balconi. L’edificio è un corpo isolato che vuole differenziarsi da quello che lo circonda. I nostri sono “balconi”, ognuno con due appartamenti all’interno, che, sovrapposti, diventano edifici e desiderano legarsi fra loro per creare un insieme e non una serie.

I balconi di via Sogliano sono definiti all’esterno da linee curve, ottenute nella costruzione usando in successione casseforme prefabbricate da porre come limiti dei solai. Con solo cinque casseforme, di raggio e lunghezza differenti, è stato possibile ottenere innumerevoli forme curve. Il limite dei solai, sempre per mezzo di queste casseforme, veniva finito con un bordo esterno, rialzato di 5 cm. rispetto al piano del solaio e con uno spessore di 5 cm, che permetteva l’ancoraggio dei pannelli. I pannelli che compongono il parapetto sono stati anch’essi prefabbricati, sempre su nostro progetto – eravamo agli albori della prefabbricazione in Italia – questi elementi sono composti con cemento bianco e graniglia di pietra bianca. All’interno è presente una struttura di ferro con tondini di 5 cm. di diametro. L’esterno è leggermente bocciardato. I pannelli hanno i lati stretti con le forme maschio- femmina per dare la possibilità di giuntarli secondo le curve progettate e per conferire stabilità al parapetto. Nella parte superiore del parapetto, una volta montati i pannelli, è stata inserita una ‘C’ di ferro, sagomata sul posto e saldata alla successiva per dare la definitiva stabilità al tutto”.

I villini, una volta realizzati, ebbero una buona eco, tanto che proiettarono lo studio su altre commesse di edifici residenziali nella Capitale. Questo lavoro, proveniva da una solida base culturale maturata, come detto, sin dai tempi dell’università “In facoltà c’era una strana aria, la maggior parte dei professori si vantava di aver sempre rifiutato di fare villini o palazzine. Luigi Moretti, Amedeo e Ugo Luccichenti, Vincenzo Monaco e altri, che progettavano edifici di grande qualità, che oggi si stanno rivalutando, erano mal visti nelle facoltà di architettura, non venivano invitati a partecipare ai vari dibattiti e tantomeno ad insegnare. Nel 1965 ruppe il ghiaccio Carlo Aymonino con la palazzina di via Arbia e questo ci diede coraggio a progettare.”

Visual Editing : Giuseppe Felici Redazione AR Web

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